Richard Meier: il ritorno di un americano a Roma
Paolo Conti
Corriere della Sera - cronaca Roma 24/9/2005
Un americano a Roma. Irresistibile la tentazione di citare quel titolo, Richard Meier alle prese con l'Ara Pacis col suo (discusso) progetto è la traduzione architettonica di un racconto a sfondo morale: giovane studente statunitense si innamora di una capitale europea e «da grande», ricco e famoso, salda i conti coi ricordi lasciando un segno indelebile. Meier ha studiato all'American Academy in Rome, in via Angelo Masina al Gianicolo. Forse, chissà, quel suo amore per il bianco assoluto, persino le grandi vetrate del progetto dell'Ara Pacis nascono dai mesi passati nell'immenso edifìcio costruito nel 1894 da un gruppo di ricchi filantropi americani (qualche cognome: Vanderbilt, Rockefeller, Carnegie, i Frick grandi collezionisti) e inondato dal sole romano che sgorga dai finestroni.
Magari non sarà proprio così, magari i riverberi del Gianicolo hanno un peso specifico relativo nella vicenda che ha appassionato (in senso negativo e positivo) urbanisti e intellettuali in questi anni. Ma è bello pensarlo.«La mia prima visita nella capitale risale al 1959 quando venni per due mesi per studiare architettura. Non sono venuto come un americano, come un newyorchese, ma come qualcuno che già amava Roma», ha detto ieri l'architetto.
Meier ha molti tratti intellettuali europei, e quindi anche italiani. Confessò in un'intervista di essere rimasto vittima di una specie di folgorazione affacciandosi per la prima volta sulla spiaggia di Jesolo: «Ero stupito dalla profondità e dalla bellezza della spiaggia, noi non ne abbiamo così in America, nemmeno in California. E poi quella luce sul mare...
Chissà cosa dev'essergli capitato affacciandosi su Roma, la mattina o il pomeriggio del suo arrivo, dalla terrazza del Fontanone dell'Acqua Paola, a pochi metri dall'American Academy. Altro che la luce di Jesolo: sicuramente qualcosa che somigliava alla sindrome di Stendhal. Adesso questo ex giovane americano a Roma, diventato urbanista e architetto di grido, lascia il suo segno perenne nel cuore antico della città. Qualche amministratore culturale capitolino ironizza su tanta attenzione e parla di «fissazione» a proposito delle lunghe polemiche sull'Ara Pacis. Di «fissazione» sicuramente si tratta: materiali che resteranno nei prossimi secoli in pieno centro storico. Più «fissazione» di così.
E Meier deve saperlo bene, lui che è così abituato a dialogare (con i suoi famosi bianchi, con le sue ampie aperture protette dal vetro, con le sue linee nette) con gli spazi aperti delle città americane. A Tor Tre Teste il Meier americano a Roma ha regalato un pezzo di urbanistica contemporanea di straordinario valore. Ora bisognerà capire cosa accadrà con l'Ara Pacis. L'elegante americano a Roma (capelli candidi, abito grigio di ottima fattura, un tratto umano che suggerisce simpatia) sa che la scommessa non è da poco. Lo sapeva già ai tempi in cui studiava nella nostra città, si immaginava un futuro tutto da scrivere. Sapeva che la città così ben leggibile dal Gianicoto nei giorni di tramontana è un tessuto irripetibile con un centro storico. A Meier è toccato in sorte una opportunità unica in una vita: un'amministrazione comunale che, senza un concorso internazionale, gli ha affidato per «chiamata diretta» un progetto che avrebbe fatto per sempre felice qualsiasi architetto di questo mondo. L'ex studente dell'American Academy forse ha creduto di sognare, sapendolo.
E adesso il suo progetto è lì, in vetro e linee bianche. Le polemiche sono archiviate, ormai carta morta. Tutto è lì, «fissato» per chissà quanti secoli. Come andrà a finire? Verrà assorbito dalla Roma che Meier ammirava dal Gianicolo? È la vera scommessa del futuro. Non basterà il sole romano a vincerla. E Meier lo sa.