lunedì 3 agosto 2009

Autogrill Ara Pacis, un’americanata a Roma

Autogrill Ara Pacis, un’americanata a Roma
di Giuseppe Blasi
L'Opinione, Edizione 118 del 31-05-2006

Il costo del biglietto d’ingresso per visitare l’Ara Pacis è di sei euro e cinquanta centesimi. Pochissime le riduzioni alle quali sono peraltro esclusi gli over 65 e i nullatenenti. La platea con la sua scalinata antistante l’atrio, sopraelevata rispetto Via di Ripetta, incombe sulla facciata della retrostante chiesa di S. Rocco e il travertino con il quale è stata rivestita ha, come tutto il travertino romano, un colore chiaro in questo caso reso abbagliante dal sole d’inizio estate e dal bianco candido che uniforma cromaticamente l’intero edificio. Una volta entrati, sono sufficienti pochi minuti per rendersi conto che l’architetto ha assolto pienamente il compito affidatogli. Chiunque abbia, infatti, visitato musei e aree espositive americane non può non osservare la stretta aderenza di questo edificio ai canoni di quegli edifici: ambienti spaziosi, volumi essenziali nelle configurazioni, percorsi agevoli e ben studiati, illuminazione naturale atta a valorizzare al massimo l’insieme espositivo, aerazione curata per il massimo confort assicurato anche da una sufficiente dotazione di sedute atte a soffermarsi per ammirare in tutta tranquillità gli oggetti esposti; in questo caso l’oggetto: l’Ara Pacis Augustae. L’unico lieve appunto, a mio parere, può essere rivolto a qualche particolare esecutivo non proprio così curato come in edifici americani appartenenti alla stessa tipologia.

Quando l’opera sarà terminata e quando saranno stati resi agibili i negozi e il ristorante previsti alla quota di Via di Ripetta, l’operazione risulterà in linea con gli standard mondiali. E questo costituisce elemento di ulteriore positiva valutazione. In altri termini, se fossi entrato in un edificio consimile in qualsiasi città d’America, mi sarei ritrovato appieno in quella civiltà e, ripeto, a mio avviso l’architetto ha onestamente assolto il suo incarico. Peccato che abbia dimenticato di essere a Roma. Peccato soprattutto, che lo abbiano dimenticato i committenti l’opera, i due dioscuri, i due cinquantenni Rutelli e Veltroni, considerati dai commentatori che se ne intendono gli eredi dei politici vintage, guarda caso nella loro carriera ambedue sindaci di Roma, ambedue vicepresidenti del Consiglio, ambedue ministri dei Beni Culturali. Ma ambedue cause ultime, ma non meno importanti delle prime e più antiche, di gran parte dei mali che stanno uccidendo lentamente questa città. Essi sono, per volere espresso, i maggiori responsabili di un’operazione che denuncia al massimo grado gli effetti della globalizzazione, in questo caso globalizzazione di stili architettonici indifferenziati importati da mezzo mondo come fossero prodotti industriali.

Questa operazione esprime in verità una voglia, peraltro sempre dichiarata e di per sé lodevole, di voler fare di Roma una città moderna alla pari di tante altre capitali. Peccato ancora però che a tale fine venga strumentalmente utilizzato, e questa è colpa grave, il centro storico della città inserendo in esso un’opera invadente per i suoi volumi sproporzionati rispetto le esigenze di protezione e di visitazione dell’Ara, invadente inoltre per il suo colore, estraneo a quello dei palazzi romani, ma che provvederanno essi stessi, con lo smog prodotto dai loro impianti di riscaldamento (dove si brucia di tutto) e con il tempo, a correggere. Lo smog. Dovuto anche a un traffico paragonabile ormai a quello delle città di massimo sovraffollamento, e derivato a sua volta da una errata politica di sviluppo più volte denunciata ma ostinatamente perseguita. In questo miserevole contesto di massimo sfruttamento delle strutture edilizie del centro storico, di soffocamento della città tramite pesantissimi nuovi insediamenti periferici, di piani regolatori che regolano senza migliorare la città, è stata voluta l’operazione Ara Pacis.

Questa che nelle intenzioni avrebbe voluto dimostrare della vitalità e della robustezza della cultura architettonica e urbana romana, esprime esattamente il contrario. Si fa poco e quel poco che si fa viene realizzato nel luogo e nei modi sbagliati. Sarà bene ricordare in primo luogo che questa operazione ha visto la distruzione della vecchia teca realizzata da Ballio Morpurgo, non ultimo tra gli architetti italiani, che molto sommessamente, consapevole della delicatezza del problema, si era limitato a realizzare un organismo funzionale, di modestissime dimensioni, che era riuscito a non disturbare i delicati equilibri di Roma. In secondo luogo sarà bene sottolineare per i lettori che l’ubicazione originaria dell’Ara di Augusto non è quella attuale. Infatti Augusto la fece costruire lungo la Via Flaminia, ora Via del Corso, e i suoi resti, ritrovati ai primi del secolo passato sotto un palazzo di Via in Lucina, dopo varie peripezie, e peraltro ancora in parte sparsi per il mondo, vennero posizionati in epoca mussoliniana nella loro attuale ubicazione che, proprio per questo, avrebbe potuto non essere confermata.

Nessuno che abbia pensato, almeno per quanto a mia conoscenza, a un riposizionamento dell’Ara, ad una sua collocazione nell’ambito di un piano di recupero e valorizzazione dei tanti reperti archeologici sin troppo a lungo dimenticati e forse in stato di abbandono. Recupero e valorizzazione da realizzare, chissà, forse in qualcuna delle nostre periferie dove tuttavia non è impensabile trovare agganci con le storiche realizzazioni della Roma repubblicana e imperiale e dove le fantasie degli stili imposti e subiti dalla globalizzazione potrebbero trovare tuttavia migliore accoglienza. Si è scelta invece, come dicevo, chiamando l’architetto Meyer ad operare nel contesto storico di Roma, la strada più immediata e spontanea, quella della importazione della altrui cultura, che in questo caso è dichiarazione espressa di una sconfitta, della perdurante caduta della cultura architettonica italiana non ancora ripresasi dalle distruzioni operate su generazioni di studenti a partire dal 1968, come in una recente intervista a Repubblica ha sentenziato l’architetto austriaco (e definito star dell’architettura) Boris Podrecca.

Storia ancora tutta da scrivere. I due sindaci, e con loro ognuno dei responsabili di questa inopportuna presenza, ambedue prodotti di quella cultura, sono essi stessi espressione e apice di una crisi dell’intera società italiana incapace di esprimere un linguaggio architettonico suo proprio, ma costretta a importare stili che, prevalenti ormai in ogni zona del mondo, costituiscono la cifra della modernità globalizzante e globalizzata ma che, immessi nel corpo organico di Roma ne feriscono irrimediabilmente le armonie con un raccapricciante stridore. Per chi da Piazza del Popolo percorre Via di Ripetta, la bianca ferita alla continuità della parete urbana inferta dall’opera di Meyer è sin troppo evidente, mano a mano che il percorso si snoda essa appare sempre più lacerante un tessuto edilizio e architettonico forte e delicato al tempo stesso, essa si palesa poi frastornante nel cieco prospetto verso la piazza Augusto Imperatore costituente su questa una quinta propria da contenitore, mortificante innanzitutto noi stessi e soltanto dopo il contesto storico che la circonda. Converrà al visitatore voltarle le spalle e immergersi nuovamente nella calda, amichevole, rassicurante atmosfera dei palazzi romani.

La vittoria elettorale di Veltroni a Roma, la sua riconferma, nel momento in cui la città da lui amministrata si vede appioppare l’ennesimo giudizio negativo per la qualità di vita che in essa si svolge (60° posto in classifica tra le città del mondo), dimostra lo stato di crisi profondo e complessivo di un’intera società che, per altra parte, non riesce a esprimere alcuna altra alternativa culturalmente superiore. Una società in continuo degrado come la città nella quale opera e vive. Il nuovo contenitore di Meyer, lungi dal poter essere il fiore all’occhiello di una Roma all’altezza dei tempi e di se stessa, dimostra al contrario l’incapacità esistente nella capitale di sapersi esprimere plasticamente. Il ricorso a tendenze stilistiche globalizzanti sì, ma effimere, al contrario esalta i veri contenuti storici, civili e architettonici di Roma.

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