«La mia teca di luce resisterà alle polemiche»
Giuseppe Pullara
Corriere della Sera - Roma, 21/04/2006
Intervista all'architetto americano nel giorno dell'inaugurazione: «Un candidato sindaco vuole spostare l'opera in periferia? Speriamo rivinca Walter...»
«Ogni cambiamento porta polemiche. Ma Roma non è solo passato: è futuro»
L'Intervista a Meier
Architetto Richard Meier, ci vuole presentare la «sua» Ara Pacis? Cosa ispira il progetto?
«Sono stato molto attento a creare un rapporto tra vecchio e nuovo, tra opera e contesto. Tra gli elementi naturali, come la luce, i colori, gli alberi, e ciò che invece è fatto dall'uomo. L'architettura è statica; ma deve riflettere le dinamiche naturali, i cambiamenti della luce e dei colori durante il giorno, nel corso delle stagioni: questo vuole esprimere l'edificio, pensato per accompagnare via via, in una sequenza di luce diversa, il visitatore ad ammirare l'Ara di Augusto».
Il museo non è allineato sul profilo di via Ripetta, sporgendone in modo evidente. Ha rotto un equilìbrio: l'ha fatto apposta?
«Mi e stato detto di conservare la scritta delle Res Gestae. Così ho dovuto inglobarla nell'edificio, spostandone in fuori il profilo».
Perché ha scelto questa scala nel dare le dimensioni al museo? Alcuni dicono: è bello, ma troppo grande.
«E' semplice: mi sono rifatto alle dimensioni dell'Altare. Bisognava creare uno spazio in perfetta proporzione. Ma è anche vero che alla fine si tratta di una valutazione del tutto soggettiva».
Quali cambiamenti ha apportato al progetto originale, oltre l'eliminazione del «muro» di fronte alla chiesa?
«Il muro era pensato per separare lo spazio del museo e della piazza dal traffico del Lungotevere. So che il problema sarà risolto con un tunnel, che consentirà la creazione di uno spazio continuo tra la piazza e il Tevere. Sarà terrific!».
Perché pretende che il segno verticale sulla scalinata sia un monolito? Perché non ha accettato che sia composto da più parti?
«Poteva essere una colonna, ma non si è trovata delle dimensioni giuste. Si tratta di un segno che simboleggia l'essenzialità, e quindi non può' che essere un monolito, come gli obelischi».
Lei ha uno stile architettonico inconfondibile. Questo suo museo romano cos'ha di particolare rispetto alle altre sue opere?
«In tutti i miei lavori esiste un rapporto tra spazio aperto e spazio chiuso, risolto con la trasparenza che consente il passaggio della luce all'interno degli edifici. In questo caso, mi sono impegnato a rispettare in modo particolare il valore dell'Altare avvolgendolo in una aura luminosa appropriata. Inoltre, ho voluto accompagnare la "passeggiata" del visitatore verso l'Ara con un'intensità di luce diversa».
Le grandi vetrate sono segnate da elementi orizzontali frangisole. Funzionali o anche decorativi?
«Sono necessari per formare ombra, ma devo dire che creano anche un effetto di profondità nella vetrata liscia. Come le facciate dei palazzi, qui a Roma, con gli sbalzi delle finestre, i cornicioni».
I suoi edifìci hanno spesso coniugato linea e curva. Lo ha fatto nella chiesa di Tor Tre Teste, non qui. Perché?
«La curva, socchiude uno spazio, invita al raccoglimento. Va bene per la chiesa, qui non ce n'è bisogno. Eppoi con il gigantesco cerchio del mausoleo di Augusto di fronte è impossibile tracciare qualsiasi altra curva».
La geometria per lei è quasi un'ossessione. In questo museo perfino il taglio del travertino evidenzia l'incrocio delle linee.
«La geometria crea un rapporto tra gli elementi architettonici. E aiuta l'uomo a porsi in relazione con l'edificio che ha davanti».
Ha avuto problemi con il committente dell'Ara Pacis?
«E'un grosso committente, il Comune di Roma. Trattare con un ente pubblico è diverso che lavorare per un privato anche se si tratta di un'opera cento volte maggiore come il Getty Center di Los Angeles».
Le è mai capitato di "inaugurare" uno stesso lavoro due o tre volte?
(ride) «Veramente no, succede solo in Italia».
Dell'architettura di Roma cosa la colpisce di più?
«La sua stratificazione di stili. E la ricchezza della scala dei suoi spazi. Rispetto a Parigi, Roma è molto più adatta alla dimensione umana».
Quale edificio preferisce, qui a Roma?
«Sant'Ivo alla Sapienza. Per i rapporti tra le sue parti, per il movimento creato all'interno, per la sua scala volumetrica».
Lei è l'architetto della luce, che tratta come un materiale da costruzione. Come l'ha usato all'Ara Pacis?
«Come elemento che accompagna il visitatore a vedere l'Altare».
Il travertino: l'ha utilizzato al Getty Center di Los Angeles e qui. Come mai questo legame?
«Semplice: a LA mi è stato detto che non potevo usare il colore bianco, per una norma edilizia. Allora ho scelto una pietra che non è un semplice rivestimento: ha una forte espressione, profondità, è luminosa. In questo museo l'ho utilizzata perché il travertino è il marmo di Roma».
C'è una differenza tra la luce di LA e quella di Roma?
«Quella di Los Angeles è tagliente, forte. Qui c'è una luce calma, tranquilla».
La sua chiesa a Tor Tre Teste ha raccolto solo consensi. L'Ara Pacis, invece, molte polemiche. Perché?
«La chiesa è in periferia, non interessa a nessuno. E poi il committente è il Vaticano: qui chi osa toccarlo? Il museo cambia gli equilibri in una zona del centro storico, e ogni cambiamento è accolto da polemiche. Questo edificio dice che Roma non è solo passato, ma anche presente e futuro».
Perché lei preferisce progettare musei?
«Perché sono spazi pubblici, perché amo l'arte che contengono. Anche se mi chiedessero di progettare una scuola lo farei volentieri: infatti amo i bambini».
Lei ama molto Borromini. Se ne vede traccia nella sua chiesa romana. Non qui. Perché?
«Borrommini porta il pensiero e lo sguardo verso l'alto, fisicamente e spiritualmente. Nel museo si deve guardare dritto».
Come gli architetti del gotico, lei usa strutture essenziali e grandi vetrate. Le piace considerarsi un neo-gotico, un mistico?
«Lascio questa definizione agli storici di architettura. Mistico? Forse: amo la luce, e Dio è luce».
Quando progetta, si preoccupa di lasciare il suo segno o pensa a chi userà il suo edificio?
«Penso all'uso che la gente farà del mio lavoro. Per questo cerco di dare una scala umana agli spazi che disegno».
Che responsabilità ha l'architettura nei confronti della società?
«Deve rispettare la funzione che è assegnata all'oggetto architettonico. Ma poi bisogna andare oltre: l'operà deve anche essere bella».
La teca di Morpurgo che avvolgeva l'Ara Pacis è durata 60 anni. Quanto durerà il suo museo?
«Almeno altrettanti Ma spero di più».
Un candidato sindaco della destra, Gianni Alemanno, ha detto che se vince farà spostare la «sua» Ara Pacis in periferia, per sanare la ferita inferta alla città storica. Che dice, Meier?
«Che devo dire? Spero che vinca Veltroni, che oltre tutto è un buon sindaco».
Giuseppe Pullara
Corriere della Sera - Roma, 21/04/2006
Intervista all'architetto americano nel giorno dell'inaugurazione: «Un candidato sindaco vuole spostare l'opera in periferia? Speriamo rivinca Walter...»
«Ogni cambiamento porta polemiche. Ma Roma non è solo passato: è futuro»
L'Intervista a Meier
Architetto Richard Meier, ci vuole presentare la «sua» Ara Pacis? Cosa ispira il progetto?
«Sono stato molto attento a creare un rapporto tra vecchio e nuovo, tra opera e contesto. Tra gli elementi naturali, come la luce, i colori, gli alberi, e ciò che invece è fatto dall'uomo. L'architettura è statica; ma deve riflettere le dinamiche naturali, i cambiamenti della luce e dei colori durante il giorno, nel corso delle stagioni: questo vuole esprimere l'edificio, pensato per accompagnare via via, in una sequenza di luce diversa, il visitatore ad ammirare l'Ara di Augusto».
Il museo non è allineato sul profilo di via Ripetta, sporgendone in modo evidente. Ha rotto un equilìbrio: l'ha fatto apposta?
«Mi e stato detto di conservare la scritta delle Res Gestae. Così ho dovuto inglobarla nell'edificio, spostandone in fuori il profilo».
Perché ha scelto questa scala nel dare le dimensioni al museo? Alcuni dicono: è bello, ma troppo grande.
«E' semplice: mi sono rifatto alle dimensioni dell'Altare. Bisognava creare uno spazio in perfetta proporzione. Ma è anche vero che alla fine si tratta di una valutazione del tutto soggettiva».
Quali cambiamenti ha apportato al progetto originale, oltre l'eliminazione del «muro» di fronte alla chiesa?
«Il muro era pensato per separare lo spazio del museo e della piazza dal traffico del Lungotevere. So che il problema sarà risolto con un tunnel, che consentirà la creazione di uno spazio continuo tra la piazza e il Tevere. Sarà terrific!».
Perché pretende che il segno verticale sulla scalinata sia un monolito? Perché non ha accettato che sia composto da più parti?
«Poteva essere una colonna, ma non si è trovata delle dimensioni giuste. Si tratta di un segno che simboleggia l'essenzialità, e quindi non può' che essere un monolito, come gli obelischi».
Lei ha uno stile architettonico inconfondibile. Questo suo museo romano cos'ha di particolare rispetto alle altre sue opere?
«In tutti i miei lavori esiste un rapporto tra spazio aperto e spazio chiuso, risolto con la trasparenza che consente il passaggio della luce all'interno degli edifici. In questo caso, mi sono impegnato a rispettare in modo particolare il valore dell'Altare avvolgendolo in una aura luminosa appropriata. Inoltre, ho voluto accompagnare la "passeggiata" del visitatore verso l'Ara con un'intensità di luce diversa».
Le grandi vetrate sono segnate da elementi orizzontali frangisole. Funzionali o anche decorativi?
«Sono necessari per formare ombra, ma devo dire che creano anche un effetto di profondità nella vetrata liscia. Come le facciate dei palazzi, qui a Roma, con gli sbalzi delle finestre, i cornicioni».
I suoi edifìci hanno spesso coniugato linea e curva. Lo ha fatto nella chiesa di Tor Tre Teste, non qui. Perché?
«La curva, socchiude uno spazio, invita al raccoglimento. Va bene per la chiesa, qui non ce n'è bisogno. Eppoi con il gigantesco cerchio del mausoleo di Augusto di fronte è impossibile tracciare qualsiasi altra curva».
La geometria per lei è quasi un'ossessione. In questo museo perfino il taglio del travertino evidenzia l'incrocio delle linee.
«La geometria crea un rapporto tra gli elementi architettonici. E aiuta l'uomo a porsi in relazione con l'edificio che ha davanti».
Ha avuto problemi con il committente dell'Ara Pacis?
«E'un grosso committente, il Comune di Roma. Trattare con un ente pubblico è diverso che lavorare per un privato anche se si tratta di un'opera cento volte maggiore come il Getty Center di Los Angeles».
Le è mai capitato di "inaugurare" uno stesso lavoro due o tre volte?
(ride) «Veramente no, succede solo in Italia».
Dell'architettura di Roma cosa la colpisce di più?
«La sua stratificazione di stili. E la ricchezza della scala dei suoi spazi. Rispetto a Parigi, Roma è molto più adatta alla dimensione umana».
Quale edificio preferisce, qui a Roma?
«Sant'Ivo alla Sapienza. Per i rapporti tra le sue parti, per il movimento creato all'interno, per la sua scala volumetrica».
Lei è l'architetto della luce, che tratta come un materiale da costruzione. Come l'ha usato all'Ara Pacis?
«Come elemento che accompagna il visitatore a vedere l'Altare».
Il travertino: l'ha utilizzato al Getty Center di Los Angeles e qui. Come mai questo legame?
«Semplice: a LA mi è stato detto che non potevo usare il colore bianco, per una norma edilizia. Allora ho scelto una pietra che non è un semplice rivestimento: ha una forte espressione, profondità, è luminosa. In questo museo l'ho utilizzata perché il travertino è il marmo di Roma».
C'è una differenza tra la luce di LA e quella di Roma?
«Quella di Los Angeles è tagliente, forte. Qui c'è una luce calma, tranquilla».
La sua chiesa a Tor Tre Teste ha raccolto solo consensi. L'Ara Pacis, invece, molte polemiche. Perché?
«La chiesa è in periferia, non interessa a nessuno. E poi il committente è il Vaticano: qui chi osa toccarlo? Il museo cambia gli equilibri in una zona del centro storico, e ogni cambiamento è accolto da polemiche. Questo edificio dice che Roma non è solo passato, ma anche presente e futuro».
Perché lei preferisce progettare musei?
«Perché sono spazi pubblici, perché amo l'arte che contengono. Anche se mi chiedessero di progettare una scuola lo farei volentieri: infatti amo i bambini».
Lei ama molto Borromini. Se ne vede traccia nella sua chiesa romana. Non qui. Perché?
«Borrommini porta il pensiero e lo sguardo verso l'alto, fisicamente e spiritualmente. Nel museo si deve guardare dritto».
Come gli architetti del gotico, lei usa strutture essenziali e grandi vetrate. Le piace considerarsi un neo-gotico, un mistico?
«Lascio questa definizione agli storici di architettura. Mistico? Forse: amo la luce, e Dio è luce».
Quando progetta, si preoccupa di lasciare il suo segno o pensa a chi userà il suo edificio?
«Penso all'uso che la gente farà del mio lavoro. Per questo cerco di dare una scala umana agli spazi che disegno».
Che responsabilità ha l'architettura nei confronti della società?
«Deve rispettare la funzione che è assegnata all'oggetto architettonico. Ma poi bisogna andare oltre: l'operà deve anche essere bella».
La teca di Morpurgo che avvolgeva l'Ara Pacis è durata 60 anni. Quanto durerà il suo museo?
«Almeno altrettanti Ma spero di più».
Un candidato sindaco della destra, Gianni Alemanno, ha detto che se vince farà spostare la «sua» Ara Pacis in periferia, per sanare la ferita inferta alla città storica. Che dice, Meier?
«Che devo dire? Spero che vinca Veltroni, che oltre tutto è un buon sindaco».
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