L'altare di guerra
Valerio Magrelli
Corriere della Sera, Roma - 21/04/2006
Le polemiche sulla nuova teca dell'Ara Pacis sono ormai diventate un vero e proprio genere letterario. Dai pareri degli opinionisti alle analisi degli tecnici, dalle attestazioni di stima per l'autore alle invettive contro il suo operatole stata registrata ogni reazione. Sia chiaro: tale variegato ventaglio di passioni e riflessioni sta a significare che la nostra «polis» partecipa ai proprio avvenire, e che lo stato di salute civica risulta invidiabile. Tuttavia resta il fatto che, rispettò ad altre realizzazioni recenti, questo progetto appare il più controverso.
I motivi, indubbiamente, non mancano. Per esempio, evitando di sfidare un centro saturo di storia, forse sarebbe stato preferibile insistere nel riscattare zone meno prestigiose. Inoltre, piuttosto che disfare un manufatto dignitoso come quello preesistente, sarebbe stato auspicabile privilegiare una efficace campagna di restauri, magari proteggendo gli spazi pubblici dall'invasione di bar e ristoranti. Ciò detto, una volta giunti all'inaugurazione, la logica vorrebbe che si prendesse atto dello stato di cose, limitandosi semmai a lievi modifiche (vedi quel «muro del pianto» che nasconde una delle due chiese retrostanti). Invece, Gianni Alemanno, sfidante di Veltroni alla carica di sindaco, ha dichiarato che, in caso di vittoria, si impegnerà a smantellare, la teca di Meier, trasportandola in periferia per farne un museo.
I primi a esprimere qualche perplessità sono stati proprio alcuni tra i suoi alleati: come ignorare il tempo e le spese di una proposta simile? Come dimenticare i cinquanta metri di profondità delle fondamenta che reggono l'edificio? Dopo l'obelisco reso ad Addis Abeba (seppure sulla spinta di ben altre ragioni), la mania delle migrazioni architettoniche rischia di dilagare. Ma c'è dell'altro. Dietro l'affermazione di Alemanno si intravede una sorta di accanimento terapeutico. Quest'ara della pace rischia di trasformarsi in un altare della guerra. Impediamo che l'insistenza si tramuti in fissazione, in coazione a ripetere, in rappresaglia infinita. Riuscito o meno che sia, chiudiamo «l'affaire Meier», e approfittiamo anzi del conflitto sollevato, in modo da concertare un piano di priorità che, per quanto possibile, scongiuri in futuro nuovi scontri.
Valerio Magrelli
Corriere della Sera, Roma - 21/04/2006
Le polemiche sulla nuova teca dell'Ara Pacis sono ormai diventate un vero e proprio genere letterario. Dai pareri degli opinionisti alle analisi degli tecnici, dalle attestazioni di stima per l'autore alle invettive contro il suo operatole stata registrata ogni reazione. Sia chiaro: tale variegato ventaglio di passioni e riflessioni sta a significare che la nostra «polis» partecipa ai proprio avvenire, e che lo stato di salute civica risulta invidiabile. Tuttavia resta il fatto che, rispettò ad altre realizzazioni recenti, questo progetto appare il più controverso.
I motivi, indubbiamente, non mancano. Per esempio, evitando di sfidare un centro saturo di storia, forse sarebbe stato preferibile insistere nel riscattare zone meno prestigiose. Inoltre, piuttosto che disfare un manufatto dignitoso come quello preesistente, sarebbe stato auspicabile privilegiare una efficace campagna di restauri, magari proteggendo gli spazi pubblici dall'invasione di bar e ristoranti. Ciò detto, una volta giunti all'inaugurazione, la logica vorrebbe che si prendesse atto dello stato di cose, limitandosi semmai a lievi modifiche (vedi quel «muro del pianto» che nasconde una delle due chiese retrostanti). Invece, Gianni Alemanno, sfidante di Veltroni alla carica di sindaco, ha dichiarato che, in caso di vittoria, si impegnerà a smantellare, la teca di Meier, trasportandola in periferia per farne un museo.
I primi a esprimere qualche perplessità sono stati proprio alcuni tra i suoi alleati: come ignorare il tempo e le spese di una proposta simile? Come dimenticare i cinquanta metri di profondità delle fondamenta che reggono l'edificio? Dopo l'obelisco reso ad Addis Abeba (seppure sulla spinta di ben altre ragioni), la mania delle migrazioni architettoniche rischia di dilagare. Ma c'è dell'altro. Dietro l'affermazione di Alemanno si intravede una sorta di accanimento terapeutico. Quest'ara della pace rischia di trasformarsi in un altare della guerra. Impediamo che l'insistenza si tramuti in fissazione, in coazione a ripetere, in rappresaglia infinita. Riuscito o meno che sia, chiudiamo «l'affaire Meier», e approfittiamo anzi del conflitto sollevato, in modo da concertare un piano di priorità che, per quanto possibile, scongiuri in futuro nuovi scontri.
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