La teca di Meier? È un abuso edilizio
Pietro Samperi*
Il Giornale (Roma) 27/04/2006
Purtroppo il sindaco Veltroni ha perso una buona occasione, non arrivo a dire per criticare, ma almeno per dissociarsi dalla responsabilità (in origine non sua) dell'orribile nuovo
contenitore dell'Ara Pacis, tanto più che la sua nuova inaugurazione (dopo la precedente dello scorso anno), avvenuta per il Natale di Roma, è del tutto impropria, giacché l'opera è ancora incompiuta e non funzionante delle sue numerose - e ingiustificate - componenti complementari.
Evidentemente il sindaco tiene a confermare l'appellativo di «taglianastri», attribuitogli dai romani.
Mi risulta personalmente che anche autorevoli esponenti capitolini considerano un grave errore questa opera, ma allora perché averci insistito e non aver ammesso francamente l'errore?
Non si tratta soltanto di valutazioni estetiche, che possono essere soggettive, ma del rispetto di regole che devono andare ormai oltre ogni valutazione personale. L'opera infatti non è discutibile soltanto dal punto di vista architettonico ma, prima di tutto, inammissibile da quello urbanistico, giacché è ormai chiaramente acquisito dalla cultura contemporanea che alla base della salvaguardia dei centri storici, soprattutto quando raggiungono le caratteristiche e i valori di quello di Roma, vi è l'esclusione di ogni nuovo intervento che alteri l'ambiente e gli equilibri esistenti. Tanto più quando tali interventi non hanno alcuna motivazione di necessità o di urgenza. L'Ara Pacis era stata inserita negli Anni Trenta in una «teca» la cui consistenza era ridotta al minimo indispensabile per la protezione e, nello stesso tempo, consentiva la migliore visibilità del monumento, con linee sobrie, di buon gusto, ormai anch'esse storicizzate.
Il nuovo ingombrante e goffo manufatto architettonico, dai caratteri assolutamente estranei a quelli tradizionali della città - e di quel luogo, in particolare - è del tutto incompatibile con i principi culturali della conservazione dei centri storici, nonché, dal punto di vista formale, con la vigente disciplina urbanistica della zona A. Non vi possono essere motivazioni per derogare a questa normativa e, al riguardo, si potrebbe anche aver creato un precedente pericoloso. Questa opera, per la sua stessa concezione, oltre che per le sue forme, le dimensioni, i contenuti, costituisce un abuso edilizio tale che la sua autorizzazione assume, a mio avviso, una portata tale da essere non solo assai criticabile, ma anche illegittima e penalmente perseguibile.
Ricordo le polemiche seguite a metà degli Anni Sessanta per la deroga alla normativa della zona A, in sede di approvazione ministeriale del Prg del 1962, per consentire di ricostruire l'edificio di piazza del Parlamento, demolito prima della guerra per realizzare nuovi servizi per la Camera. Dopo aver sottoposto il progetto di ricostruzione a concorso nazionale, al quale partecipò il fior fiore degli architetti italiani, fra concorrenti e membri della Commissione di giudizio, dopo molti mesi di lavoro, pur in presenza di progetti di altissimo valore e dalle più diverse soluzioni architettoniche, la Commissione, anche se con un solo voto di scarto e il tentativo di salvataggio del presidente Pertini, non se la sentì di dichiarare un vincitore e consentire la realizzazione di un'opera che avrebbe permesso di risolvere il problema reale del vuoto esistente in quella prestigiosa piazza.
Un'ulteriore considerazione, se si vuole secondaria rispetto al danno irreparabile arrecato da questa opera, ma che conserva intera la sua gravità, è il costo, lievitato a oltre 40 milioni di euro (pari a 80 miliardi di lire), ingiustificabili rispetto alle odierne priorità della città.
È vero che, pressoché unanime, la cultura italiana ha bocciato questa opera, ma immaginiamo cosa sarebbe avvenuto se ne fosse stata responsabile una Giunta non di sinistra!
Non concordo con la proposta di demolirla o smontarla e trasferirla, ma a condizione che vi sia apposta una lapide ben visibile con i nomi, non tanto dell'autore (vi è sempre qualcuno capace di concepire un simile obbrobrio), quanto di tutti coloro che l'hanno condivisa, autorizzata e tollerata.
(*)Urbanista
Pietro Samperi*
Il Giornale (Roma) 27/04/2006
Purtroppo il sindaco Veltroni ha perso una buona occasione, non arrivo a dire per criticare, ma almeno per dissociarsi dalla responsabilità (in origine non sua) dell'orribile nuovo
contenitore dell'Ara Pacis, tanto più che la sua nuova inaugurazione (dopo la precedente dello scorso anno), avvenuta per il Natale di Roma, è del tutto impropria, giacché l'opera è ancora incompiuta e non funzionante delle sue numerose - e ingiustificate - componenti complementari.
Evidentemente il sindaco tiene a confermare l'appellativo di «taglianastri», attribuitogli dai romani.
Mi risulta personalmente che anche autorevoli esponenti capitolini considerano un grave errore questa opera, ma allora perché averci insistito e non aver ammesso francamente l'errore?
Non si tratta soltanto di valutazioni estetiche, che possono essere soggettive, ma del rispetto di regole che devono andare ormai oltre ogni valutazione personale. L'opera infatti non è discutibile soltanto dal punto di vista architettonico ma, prima di tutto, inammissibile da quello urbanistico, giacché è ormai chiaramente acquisito dalla cultura contemporanea che alla base della salvaguardia dei centri storici, soprattutto quando raggiungono le caratteristiche e i valori di quello di Roma, vi è l'esclusione di ogni nuovo intervento che alteri l'ambiente e gli equilibri esistenti. Tanto più quando tali interventi non hanno alcuna motivazione di necessità o di urgenza. L'Ara Pacis era stata inserita negli Anni Trenta in una «teca» la cui consistenza era ridotta al minimo indispensabile per la protezione e, nello stesso tempo, consentiva la migliore visibilità del monumento, con linee sobrie, di buon gusto, ormai anch'esse storicizzate.
Il nuovo ingombrante e goffo manufatto architettonico, dai caratteri assolutamente estranei a quelli tradizionali della città - e di quel luogo, in particolare - è del tutto incompatibile con i principi culturali della conservazione dei centri storici, nonché, dal punto di vista formale, con la vigente disciplina urbanistica della zona A. Non vi possono essere motivazioni per derogare a questa normativa e, al riguardo, si potrebbe anche aver creato un precedente pericoloso. Questa opera, per la sua stessa concezione, oltre che per le sue forme, le dimensioni, i contenuti, costituisce un abuso edilizio tale che la sua autorizzazione assume, a mio avviso, una portata tale da essere non solo assai criticabile, ma anche illegittima e penalmente perseguibile.
Ricordo le polemiche seguite a metà degli Anni Sessanta per la deroga alla normativa della zona A, in sede di approvazione ministeriale del Prg del 1962, per consentire di ricostruire l'edificio di piazza del Parlamento, demolito prima della guerra per realizzare nuovi servizi per la Camera. Dopo aver sottoposto il progetto di ricostruzione a concorso nazionale, al quale partecipò il fior fiore degli architetti italiani, fra concorrenti e membri della Commissione di giudizio, dopo molti mesi di lavoro, pur in presenza di progetti di altissimo valore e dalle più diverse soluzioni architettoniche, la Commissione, anche se con un solo voto di scarto e il tentativo di salvataggio del presidente Pertini, non se la sentì di dichiarare un vincitore e consentire la realizzazione di un'opera che avrebbe permesso di risolvere il problema reale del vuoto esistente in quella prestigiosa piazza.
Un'ulteriore considerazione, se si vuole secondaria rispetto al danno irreparabile arrecato da questa opera, ma che conserva intera la sua gravità, è il costo, lievitato a oltre 40 milioni di euro (pari a 80 miliardi di lire), ingiustificabili rispetto alle odierne priorità della città.
È vero che, pressoché unanime, la cultura italiana ha bocciato questa opera, ma immaginiamo cosa sarebbe avvenuto se ne fosse stata responsabile una Giunta non di sinistra!
Non concordo con la proposta di demolirla o smontarla e trasferirla, ma a condizione che vi sia apposta una lapide ben visibile con i nomi, non tanto dell'autore (vi è sempre qualcuno capace di concepire un simile obbrobrio), quanto di tutti coloro che l'hanno condivisa, autorizzata e tollerata.
(*)Urbanista
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